OPERE DI SBARRAMENTO PRINCIPALI

Nel paesaggio agrario sardo l’acqua a lungo è stata una variabile aleatoria: sovrabbondante per brevi periodi, e spesso apportatrice di calamità e distruzioni, pressoché assente nei mesi più caldi, era motivo di prolungate siccità e di estese paludi, disseminate tra pianure e coste dal ristagno delle piogge. L’incertezza delle precipitazioni annue e l’irregolarità della stagione secca hanno inciso sul clima sardo e, di conseguenza, sulla vita rurale e sull’economia agraria della regione: per secoli l’insufficiente disponibilità idrica, unita al paludismo e alla malaria, hanno debilitato e immiserito le popolazioni contadine, reso aride e sterili le campagne. L’abbandono di vaste aree agli acquitrini, accompagnato dall’endemica incidenza della cosiddetta “sarda intemperie”, richiamò l’attenzione dei governi in età moderna. Solo dopo l’unità, tuttavia, e soprattutto quando tra il 1880 e il 1899 si rilevarono le cause scientifiche della malaria, anche in Sardegna s’intraprese una più attenta politica di risanamento, per incidere su un territorio che, dissestato sul piano idrogeologico e abbandonato per il persistere della malaria, era profondamente depauperato dall’assenza dell’uomo. I sistemi adottati inizialmente nel primo Novecento furono superati dalla bonifica integrale che ottenne importanti risultati nell’Isola, come generalmente nel Mezzogiorno. Contro quell’acqua che da sempre costituiva un “fertile inganno”, la sistemazione dei bacini idrografici divenne il perno di un processo che, incidendo sulle condizioni ambientali, intendeva superare l’incuria geopedologica e favorire, d’altro canto, la modernizzazione delle aree più arretrate del paese. La sistemazione della montagna, la creazione di laghi artificiali, la rinascita produttiva di terre incolte e malariche, la colonizzazione e l’incremento demografico delle aree sottratte alla malaria, l’energia elettrica destinata alla crescita industriale, costituivano gli elementi di un programma tecnico le cui numerose valenze politiche si enucleavano nel governo del territorio e delle sue risorse, sul piano fisico e sociale.

Nel contesto di queste iniziative, avviate in età liberale e proseguite durante il fascismo, la storia delle bonifiche in Sardegna s’intreccia con quella delle dighe, possenti strutture chiamate a razionalizzare il deflusso e l’uso delle acque raccolte negli invasi artificiali. Agli studi dell’ingegnere Angelo Omodeo (1876-1941) si deve la progettazione delle prime tra queste architetture, realizzate allo scopo di favorire lo sviluppo dell’economia agraria e industriale, e successivamente in funzione dei bisogni di energia elettrica e di acqua potabile per una società urbana in espansione. Le tesi dell’ingegnere furono decisive nell’avviare a soluzione la secolare questione idraulica in Sardegna, sebbene insufficienti a eliminare la malaria, del tutto eradicata dall’Isola solo nel secondo dopoguerra, e a risolvere gli squilibri ambientali, economici e sociali che connotavano il rapporto tra popolazione e territorio, tra campagne, rendita fondiaria e comunità contadine.

A partire dalle prospettive delineate da Omodeo, durante l’ultimo secolo l’Isola si è dotata di un numero crescente di laghi artificiali e dighe, ha sviluppato un patrimonio di strutture e di servizi per la gestione delle risorse idriche, ma è tuttora impegnata a interpretare correttamente il rapporto tra l’uomo e l’acqua, in relazione alle sfide a cui deve rispondere la società contemporanea. In sintonia con le direttive europee e gli orientamenti internazionali, anche la Sardegna è doverosamente chiamata a proteggere e conservare l’acqua, risorsa unica, limitata e fragile, di alto valore ambientale, culturale ed economico, bene pubblico da utilizzare in maniera sostenibile e da tutelare in quanto bisogno fondamentale dell’umanità, chiave dello sviluppo e del benessere per le generazioni contemporanee e future.

Maria Luisa Di Felice, Dighe della Sardegna ,  Sassari, Poliedro, 2011. ISBN 978-88-86741-37-8